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Il Santo Patrono

Il Santo Patrono

Se mi nominano la chiesa di Gognano mi viene per primo San Bartolomeo.  Ciò accade non tanto per la sua dedicazione a questo santo apostolo quanto, ritengo, per essere stati impressi nella memoria mia prima i panegirici che, nella messa solenne del 24 agosto – concelebrata e cantata in latino –  teneva Don Pelegatti invitato allo scopo dal parroco Don Cornelio. Don Pelegatti era un omone dalla voce possente e suadente, dall’oratoria ammaliante, dalla gestualità teatrale ma controllata. Svolgeva il panegirico alla stregua di un attore che recita un monologo e che sa bene come suscitare emozioni, turbamenti, risa. Sapeva usare ad arte la mimica del volto di per sé memorabile per i lineamenti irregolari e vagamente somiglianti a quelli di Fernandel nei film del Don Camillo. 

Don Pelegatti teneva il suo sermone dall’alto del pulpito che è sul lato sinistro della navata.  Per l’iconografia della sua narrazione si avvaleva: di statua posta al centro della cappella dirimpetto al pulpito ove Bartolomeo è rappresentato come figura nobile ed austera, dalla barba canuta, dagli occhi penetranti, dalla lunga veste rosa pallido; del dipinto che è sulla volta della chiesa ove due loschi, satanici, spaventosi figuri hanno già dato inizio al martirio per scuoiamento dell’apostolo legato a tronco reciso da cui spuntano due piccoli verdi polloni.In quel giorno di ricorrenza del Santo Patrono la chiesa era affollata – come a Natale – da tutti gli abitanti ed anche da qualche parente forestiero. Come da sempre nella parte anteriore della navata stavano su sedie gli uomini, il cui accesso era da porta laterale, nella parte posteriore stavano le donne sui banchi con inginocchiatoio. In mezzo su panche, che fungevano pure da divisorio tra donne e uomini, stavano i bambini: sul lato sinistro, proprio sotto il pulpito, i maschietti, sul lato destro le femminucce. Per tutti l’attenzione era massima e lo sguardo, guidato dall’oratore, muoveva nell’alto volgendo: o al pulpito, o al san Bartolomeo della cappella, o al soffitto del martirio.

Per quel che ho scoperto, anni dopo, dell’apostolo Bartolomeo, in ebraico Natanaele che significa “dono di Dio”, si dice poco nei Vangeli e quel poco è in quello di San Giovanni ed è riferito all’annuncio entusiastico dell’amico Filippo a lui che è seduto sotto un fico, al diffidente scetticismo dell’uomo concreto e ragionatore, al suo incontro con Gesù con cui dialoga e di cui in un baleno diventa fervente seguace.  Gli dice Filippo: “Abbiamo trovato colui del quale hanno scritto Mosè nella Legge e i Profeti, Gesù figlio di Giuseppe di Nazareth”. Bartolomeo gli risponde con la nota sprezzante battuta: “Da Nazareth può mai venire qualcosa di buono?”.  Del suo incontro con Gesù esclama:” Ecco davvero un israelita in cui non c’è falsità”.

Il Don Pelegatti svolgeva una sua prolissa esegesi dello scarno testo evangelico. In particolare lodava l’uomo ed encomiava l’adesione al Cristo Gesù, fin dal primo incontro.  Ma Don Pelegatti sapeva andare oltre e più lontano. Così elaborando fantasiosamente in proprio fonti della tradizione lo dice testimone coraggioso in terre esotiche e perfide, di cui traccia pennellate su paesaggi, animali, abitanti ed usanze. Ma è nel martirio che il panegirico tocca il suo apice, muta di tono, diventa racconto drammatico della barbarie e della malvagità umana.  I fedeli rabbrividiscono, restano attoniti, fissano il soffitto, sentono sulla pelle la lama tagliente, provano pietà per quel santo martire. La parola e l’immagine divengono un unicum che ti entra dentro per sempre ed è il San Bartolomeo che affiora in te ad un minimo cenno a quel luogo. 

L’organo emette un suono sommesso e greve, il coro intona: “Credo in unum Deum…”. Più avanti l’organo e il coro tacciono, ora s’ode la sola voce del solista che canta il mistero: “et incarnatus est de Spiritu Sancto”.  Tutti s’inginocchiano e chinano il capo, persino i più piccoli ed inquieti si chetano ed imitano i grandi. Sono momenti di commossa devozione e surreale partecipazione fino al liberatorio e consolatorio “et resurrexit tertia die, secundum Scripturas” che rimette tutti in piedi. Dopo quel   panegirico il “Credo” è provvidenziale: dona sollievo, distoglie la mente dalle efferatezze del martirio, ripone al centro il Cristo e non più il Santo Patrono. 

La messa prosegue, tra i profumi dell’incenso e i fumi dei ceri dei confratelli dalla rossa mantella, secondo i riti, i gesti e i canti delle solennità.   

Ora si aprono le porte, entra la luce abbagliante d’agosto, la gente esce ordinata e silenziosa, le note dell’organo vanno libere e possenti. Il loro gagliardo suono di festa giunge sino alle verzure degli orti e dei vigneti che sono lì attorno. La gente s’intrattiene allegra, ciarliera e scherzosa in piccoli capannelli. I bimbi si rincorrono tra i marmorei paracarri che separano il sagrato dalla strada. Tutti sono ben disposti e si sentono meglio dentro.

 Il lauto pranzo con libagione celebrerà anche questa festa di San Bartolomeo. Anche Don Pelegatti è atteso in canonica al desco imbandito dalla Isa, perpetua e sorella di Don Cornelio. Lo attendono le gradite vivande di circostanza: minestra di fagioli con pasta mal tagliata fatta in casa, succosa bondola con polenta, bottiglia di raboso d’annata, torta margherita, caffè corretto all’anice.

                                                                     Luigi Fasolin

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