di Luigi Fasolin
La strada d’inverno era a malapena distinguibile dall’intorno. Un’umida ovattata coltre bianco-grigia tutto avvolgeva: case, fossi, orti, campi, viandanti. Solo le spettrali scure sagome di siepi e di alberi davano un qualche riferimento, ma solo a chi vi transitava a pochi metri ed aveva familiarità con il luogo. Il contesto era percepito grazie alla pregressa conoscenza ed ai rari riferimenti individuati. Con il buio pesto della notte neanche i riferimenti soccorrevano e non di rado, tra i pochi sciagurati che osavano, taluno finiva a vagare o, peggio, dentro un fosso. E qui la notte era lunga ed iniziava quando le lancette della sveglia segnavano le prime ore serali.
Di giorno ci si muoveva per necessità non differibili: il dottore, le medicine, un bene di prima necessità, l’aiuto ad una persona bisognosa, il pagamento “prediale” in Comune, la visita ad un congiunto, la chiesa, un funerale. Si andava a piedi o in bicicletta. Di rado passava qualche carretto o calesse, comunque a passo lento e con l’animale che trainava bardato acciocché non avesse ad ammalarsi per il freddo. In bicicletta andavano solo uomini ancora in gamba, in bicicletta si pativa ancor più quel gelo umido e penetrante. Indossavano ampi e scuri tabarri di spessa lana e capelli di panno; le mani protette da manezze e queste infilate in pelle di coniglio che avvolgeva la manopola del manubrio. Così imbacuccate le persone muovevano leste ed apparivano figure sfuggenti ed ignote. Si chiamavano vicendevolmente a voce alta; talvolta l’interpellato non rispondeva subito o per celia o per il sadico gusto di ingenerare insicurezze e timori.
Di giorno erano i bambini che si spostavano per la scuola a rompere il piattume del tempo e la solitudine della strada. Andavano a due, a tre, si cercavano, alcuni venivano da lontano giacché il territorio era ampio, le case e le fattorie disperse nella grigia campagna. Solo le abitazioni che formavano la fila delle “casette” – così dette perché ad un solo piano – erano vicine. A scuola si andava assonnati, infreddoliti, di malavoglia e in silenzio. Il ritorno dalla scuola era festoso e lento. Un vociare gioioso e scherzoso si udiva avanzare per la strada per poi disperdersi per vie laterali quindi per stradine e financo per sentieri di scorciatoia. Bastava davvero poco per giocare: un sasso, un bastone, una fionda, una pallina fatta con elastici ritagliati dalle camere d’aria delle biciclette, le biglie di vetro e di terracotta. Alla bisogna pure la cartella fatta di legno e di cartone e con tracolla di spago diveniva oggetto di gioco e di scherzo. L’inverno offriva loro una gratuita e piacevole novità: il ghiaccio dei fossi e dello scolo su cui era facile, ma rischioso, lo scivolare. Esercizio che richiedeva prudenza ed equilibrio ma divertente ed esaltante. Lo scorrimento era agevolato dalle sgalmare sulle cui suole di legno venivano inchiodate brocche metalliche a testa arrotondata sì che il legno non avesse a consumarsi troppo in fretta.
Anche nei brevi pomeriggi invernali alcuni luoghi della strada erano ritrovi giovanili. Lo spiazzo a lato della scuola e la strada che lo fiancheggiava era per la palla o per il bindeche. Qualunque oggetto rotondo, non rigido, era buono, in mancanza d’altro, per essere palla. Ma una giusta palla di gomma, anche se un po’ sgonfia, si trovava sempre. Piccoli cumuli di sassi fungevano da pali delle porte. Come portieri i più grassottelli della compagnia perché i meno idonei alla corsa. Accettavano il ruolo con rassegnazione e qualche mugugno. Improvvisate le squadre, via a correre tutti, i più piccoli senza criterio, dietro alla palla. E così avanti a lungo, con pause di breve accalorata litigiosità, fino al buio. Il bindeche era un gioco diffuso nel Polesine. Il bindeche veniva sistemato con cura in una cuna in modo che la punta restasse un po’ sollevata e il corpo poggiasse sul duro sì che colpito con la mazza sulla punta si sollevasse roteando. Quindi, ancora con la mazza, colpirlo al volo e mandarlo lontano. L’abilità prima era nel costruirlo bene con il legno giusto, ed era compito da adulti. Sulle regole e le varianti del gioco non mi dilungo.
Un luogo della strada frequentato nelle altre stagioni, anche per la sua vicinanza e per le balaustre granitiche che fungevano da sedile, era il “ponte”. Ma d’inverno il ponte era solo luogo obbligato di frettoloso passaggio. Quel granito era freddo, umido e pure con lieve velo di ghiaccio. Passavo di lì per andare alla chiesa, più precisamente alla cucina della canonica, per la dottrina cristiana. (*)
Vi era un tempo nell’inverno in cui pur nulla cambiando nell’ambiente si percepiva nelle persone e nei loro discorsi la gioiosa attesa di festosi eventi. La gente più volentieri sopportava i rigori e gli accidenti di stagione. Quel tempo era il mese di dicembre. Entro la prima quindicina si usava, da quelle parti, ammazzare il “bosgato” e lavorarne, dopo giorni di frollatura, le carni secondo tradizioni locali e personali segreti del norcino. Il rito del maiale prendeva più giorni e coinvolgeva più addetti, compreso qualche volonteroso, non richiesto, che confidava di ricevere un pochino di quel bendidio. Alla fine era una festa perché il maiale era cibo essenziale e provvidenziale per le famiglie numerose. Il giorno 8 dicembre è festa dell’Immacolata Concezione; il giorno 10 è festa locale solenne: è la ricorrenza della Madonna di Loreto e più precisamente della definitiva translazione della santa casa di Nazareth a Loreto. Beh ma che c’entra Gognano con questa ricorrenza? E qui serve una parentesi per dire dei fatti che l’hanno determinata (**).
Le strade di sera erano deserte e mal sicure. Non così nelle sere che precedevano il Natale. Le animava portando luce, allegria, tradizione, il lento pellegrinare della chiarastella, per noi “ciara stea”. Davanti a tutti un giovanotto portava un palo con in cima una stella con telaio di legno ricoperto da carta colorata. All’interno, introdotta dal retro, una candela accesa ben fissata. Seguiva un carro addobbato con festoni, edera, palloncini di carta colorata con dentro lumini. In alto un fanale a carburo. Sul pianale era collocato l’armonium suonato dal maestro Luciano, in piedi acconto a lui pochi ma capaci cantori, tra cui, come tenore solista, il fratello Antonio. Il carro era trainato da docile anziana cavalla, pure lei addobbata con pennacchio e campanellini tintinnanti. Seguivano, a piedi, ragazzi con raganelle, martelletti, una piva; ma era buono ogni mezzo atto a fare rumore e richiamo. Il lento procedere del corteo nell’oscurità creava un effetto di suggestiva emozionante attesa. Raggiunta una corte, o uno spiazzo, o una lontana casa isolata il corteo si arrestava e qui era festa grande: tutti mostravano letizia ed accoglienza. Il canto era esercizio serio e preparato, da ascoltarsi in silenzioso raccoglimento. Dopo, per tutti, un bicchiere di vin brulè e conviviale intrattenimento in: chiacchiericcio, burla, risa. La sosta era variamente lunga in ragione delle presenze. Quando i pellegrinanti se ne andavano erano allegri e grati: avevano ricevuto qualche dono materiale ma soprattutto un riconoscente compiacimento. Giacché la chiarastella (***) sarebbe arrivata ovunque, anche in case remote fuori paese, quel pellegrinare si rinnovava ogni sera.
Nei giorni che precedevano il Natale l’attesa era percepita in tutte le famiglie. Tra noi bambini ed adolescenti vi era il creativo fervore di costruire il presepe. Si andava in cerca di: muschio vario, rametti d’edera, cortecce d’albero, ferume di fieno, ceppi, robusta carta dei sacchetti usatti per calce o per concimi. Tutto materiale che selezionato e adattato andava a formare l’ambientazione del presepe, in cui non mancavano le montagne imbiancate con la farina. E poi veniva il momento magico e solenne: il togliere la carta che avvolgeva le statuine di gesso riposte con cura a gennaio. L’emozione di ritrovare personaggi noti e cari è indescrivibile e ti resta dentro per sempre. Li conoscevi tutti per averli guardati a lungo e fantasticato insieme. Taluno mostrava qua e là bianche screpolature per ferite provocate da cadute; chi si era rotto in due pezzi veniva comunque aggiustato alla meglio con colla di farina. Ed ecco: il pastore con l’agnellino sulle spalle, quell’atro con zampogna, il mendicante con cappello tra le mani, colui che viene da molto lontano: alto, nobile, nero di pelle, con veste gialla e cammello accanto. Ed altri ancora. Ah quanti sogni ad occhi aperti nel ritrovare i miei pastori! E poi le pecorelle, la capanna, la cometa, lo specchio rotto a fungere da stagno. Lo si preparava in un angolo del tinello la cui porta restava rigorosamente chiusa onde impedire alla gatta di casa di fare malanni.
I sentimenti di quei giorni erano comuni senza distinzione di età e di condizione. Tralasciavamo il gioco per “creare” il presepe o quantomeno a collaborare alla sua realizzazione. In chiesa si recitava la Novena di Natale in preparazione della venuta sulla terra di Gesù, il figlio di Dio. I più grandi e capaci tra noi andavano a preparare il grande presepe della chiesa, Questo occupava tutto il braccio destro della cappella della Madonna. Era davvero suggestivo e ben curato. Ne ricordo il cielo, la grande capanna, i tanti pastori di varia dimensione, i monti con i castelli sparsi, le bianche sassose vie che conducevano a Gesù Bambino.
Il tempo che andava dal Natale all’Epifania era di vacanza ma pure noioso per i bambini che abitavano lontano. Tempo di grigio, profondo, monotono inverno. Le strade ancora più deserte di giorno, qualche passante solo di sera perché avveniva che ci si incontrasse in case con cucine capienti o nelle stalle per il tepore che qui era. All’approssimarsi della Befana, che è festa che si rifà nel Polesine a tradizioni popolari peculiari, usavano portare noi bimbi in case ove sarebbe arrivato “el vecion”. La “vecia “ invece sarebbe arrivata, in compagnia di un asinello, nelle case con bambini nella notte che precedeva quella festa portando doni. “El vecion” era un bizzarro anziano zitello del luogo travestito, onde non essere riconosciuto da noi bambini, con il capo e il corpo coperto. Era burbero ed avvezzo ad incutere paure ed a spaventare. Ci impressionava con racconti diabolici di mondi perversi. Il vezzo di raccontare storie, leggende, fole che impressionavano era piuttosto diffuso tra le persone anziane del luogo. I più capaci e credibili nella loro recitazione avevano un seguito anche tra gli adulti perché tra loro non mancavano: creduloni, ingenui e tonti. Alcune storie avevano fondamento in credenze della tradizione o in circostanze accadute a taluno di conosciuto che garantiva essere vere. I protagonisti delle recite del “vecion” erano: gli spiriti, le streghe, i maghi, di rado, animali mostruosi ed orchi. A parte dico brevemente di questi esseri narrati (****).
Nebbia ed inverno permettendo, vi era un luogo in cui, più grandicello, andavo a giocare a pallone. Percorrevo la lunga e dritta stradina della campagna detta del “Nove” per giungere alla fattoria “Boniotti” ed alla sua ampia corte. Nella fattoria viveva, oltre a quella del bovaro, un’altra numerosa famiglia, sì che lì andavo volentieri per la presenza di altri coetanei. La corte era il nostro campo di calcio: sui lati più lunghi da una parte la stalla, per noi boaria, dall’altra la barchessa; sui lati più corti da una parte il selese, pavimentato da screpolati ed irregolari mattoni rossicci, dall’altra il letamaio. Il terreno sempre sconnesso era, per la stagione, o ghiacciato o molto fangoso, specie verso il letamaio ove ristagnava orina degli animali ed altro ancora. Di come avessimo un pallone consunto ma regolare non ricordo: forse qualcuno grande giocava nella squadra di “Fratta”. Quel pallone aveva: stringhe di cuoio ad irregolare tenuta, camera d’aria che lentamente si afflosciava, punti della cucitura cedenti. Ma per noi era un gran bel pallone! Ero già alle medie ma non resistevo alle lusinghe di quel luogo e di soppiatto mi allontanavo dallo studio e da casa. Erano partite vere, lunghe, combattute, accorte giacché qualche nozione tattica l’avevamo appresa dai più grandi. A parte il fango che era ovunque quel campo aveva due altri inconvenienti: la melma marroncina e liquida attorno al letamaio, i vetri sottili e fragili delle finestrelle della stalla. Al primo inconveniente si provvedeva, al verificarsi del secondo era la fuga precipitosa essendo nota la severità del signor Guido, il padrone. Per l’intervento riparatorio di qualche genitore e per l’intercessione del bovaro, dopo qualche giorno, si poteva timidamente osare il ritorno al campo.
Nel buio della notte nessuna persona perbene si sarebbe mai avventurata: né un lume, né un incontro amichevole, solo silenzio, nebbia, gelo. Si procedeva a rilento come ciechi percependo il luogo con i piedi in base alle asperità del terreno ed alle scoline che fiancheggiavano la via. Di notte, nella tarda serata, girava solo qualche avvinazzato instabile reduce da ore di osteria e di fumo. Nella notte profonda era talvolta in giro qualche disperato malvivente a rubare polli o conigli od altro. Non sempre la ladresca impresa andava a buon fine. Questo: o per l’insistito e minaccioso abbaiare di un cane cui altri rispondevano, o per l’improvviso collettivo starnazzare nel pollaio, o per altro imprevisto impedimento. Nella notte, ovunque, silenzio; solo vicino alle stalle, di tanto in tanto, lo zoccolare di un animale. Nella notte crescevano il gelo e la nebbia e quindi “la sisara” nei rami degli alberi e la brina nei prati per un rinnovato esteso fiabesco paesaggio mattutino.
A gennaio la nebbia persisteva ancora fitta. Magari un po’ diradava lasciando intravedere, nel tardo mattino, un sole basso tenue fosco. Ma poi era di nuovo nebbia. E poi le strade erano gelate sì da rendere pericoloso l’andare in bicicletta. Di rado, ma avveniva, che la nebbia notturna restasse bassa da formare uno strato di foschia sopra la terra. In alto tornava il cielo libero ed azzurro che nel buio terso della notte formava una mirabile cupola di stelle e luna. Arrivavano infine i giorni tradizionalmente più gelidi: quelli della merla. Arrivava febbraio e la strada testimoniava il non lontano avvento della primavera.
(*) La dottrina cristiana
L’ora di dottrina cristiana era una sofferenza unica: vuoi per la maestra – la Iside sorella di Don Cornelio – e vuoi, in special modo, per la grevità del libricino in uso per l’insegnamento. Iniziava con le preghiere comuni quindi una noiosa sequela di domande e di risposte da impararsi a memorie. Qua e là qualche figura con a lato la descrizione di fatti biblici che turbavano e ti si tornavano come incubi nei sogni. Lì vi era un “Dio che ti vede ovunque”, un Dio severo che giudica e punisce. La mia generazione è cresciuta con quel Dio e non pochi lì sono rimasti divenendo o bigotti o complessati o abitudinari di riti. Altri, tuttavia, con la guida spirituale e la testimonianza di validi sacerdoti hanno lentamente maturato una fede convinta e convincente. Più avanti arriverà (1962) il radicale mutamento imposto dal concilio vaticano secondo: quei libricini andranno rapidamente al macero ed il Dio vero che conoscerai è il “ Dio misericordioso” . Chi ci faceva usare quel libricino ci metteva poi del suo per alimentare il nostro silenzioso rifiuto: aveva modi bruschi, severi, intransigenti. Mai il cedimento di un sorriso. Rara una parola di compiacimento. La nostra difesa era il silenzio onde non essere mortificati o peggio richiamati dai genitori cui la maestra di dottrina riferiva. Più avanti ho rivalutato la Iside, nel ruolo di cuoca però. Don Cornelio ci teneva alla convivialità, anche se lui mangiava pochissimo, e lei preparava gustose ed inusuali vivande: lepri, quaglie, fagiani, che il fratello cacciava. Ho desiderato dire della dottrina cristiana non tanto per dire di me quanto per evidenziare la modalità ricorrente dell’ iniziazione cristiana di allora. Iniziazione che ti porterai dentro sempre anche se saprai andare oltre.
(**) La Madonna di Loreto
Nel luglio del 1921 mentre venivano effettuati lavori di restauro su una parete laterale retrostante l’altare il muratore notò tracce di tempera nell’intonaco da rimuovere. Stante che in passato erano già stati fatti, e più volte, lavori di restauro non si dette rilievo a quei segni. Purtuttavia si ritenne di procedere con prudente circospezione. Ne venne alla luce un dipinto malconcio in alcune parti di contorno ma con ben riconoscibile al centro una Madonna con Bambino sotto un baldacchino sollevato da angeli. Con l’intervento di abile restauratore della Sovrintendenza artistica di Venezia il dipinto assunse in breve l’aspetto attuale e ne mantenne la collocazione sulla parete ove era. Successivi studi e ricerche riconobbero il valore artistico, storico, iconografico del dipinto. Peraltro ritenuto il primo dell’Italia settentrionale a rappresentare, nel XV secolo, un evento ancora poco noto, ossia: la miracolosa Traslazione della Santa casa dalla Dalmazia a Loreto. E’ probabile che il dipinto sia stato ricoperto con intonaco e calce nella prima metà del ‘600 a causa della peste, come si soleva fare per contenere il contagio. Ben presto si divulgarono notizie di grazie concesse da quella Madonna e la devozione crebbe e si diffuse nei paesi confinanti. La precaria e marginale collocazione del dipinto suggerì alle autorità ecclesiali l’idea di erigere un’esclusiva e decorosa cappella ove traslarlo. La proposta venne accolta entusiasticamente e generosamente dalla comunità. La cappella venne eretta sul lato sinistro della chiesa, ove un tempo vi era il cimitero, e fu inaugurata il 10 dicembre del 1928. Altri studi e restauri, sia della chiesa che del dipinto intervennero nei primi anni 80. Quella Madonna ha un volto buono, pensoso, triste; il bambino che tiene in braccio infonde serenità.
(***) Chiarastella
La tradizione della chiarastella ha origini antichissime ed evoca il pellegrinare di Giuseppe e Maria alla ricerca di un posto dove alloggiare. Al suo arrivo la gente tutta le va incontro e manifesta premurosa accogliente ospitalità. La tradizione, molto diffusa nel Veneto che ricordo, aveva varianti e canti diversi a seconda del territorio. Non so di oggi ma temo che essa esista ormai solo nel ricordo di noi vecchi. I canti erano pure diversi per territorio e non solo attinenti il tempo dell’Avvento. Non mancava però mai la “ciara stea” che qui riporto.
Semo qua co ‘na gran stela par ‘dorare Maria e Gesù
par portare la novèla che xe nato el Redentor!
Camminando giorno e notte come fresca xe la stagion
par i boschi e par le grotte senza vedar la procession.
Arivai alla capanna Madre Maria se lamentò
la ghe dixe al so amato sposo: “mì ‘so stanca de caminar!”!.
Co’ fu stata mesa note Madre Maria si risvegliò
si svegliò con gran splendore: jèra nato el Salvator!.
I pastori fasea alegria al Divino Salvator
i cantava in “acèsis Dei” i cantava de vero cuor!
(****) Spiriti e streghe
Gli spiriti erano le anime vaganti di defunti. Avevano un loro luogo preferenziale: lo spiazzo attorno al capitello della località “Quore” (proprio così con la Q) e si manifestavano, preferibilmente, a persone semplici e strambe come, ad esempio, il “Rigolin”. Era costui uno zitello anziano ma ancora attivo che conviveva con il fratello, coniugato con prole, in una casupola – isolata e nascosta da abbondante vegetazione – prossima al citato capitello. Per rincasare, aveva dunque necessità di transitare dal quel capitello. Pur accelerando, per quanto gli era possibile, la pedalata gli capitava di intravedere, nel bagliore della luce fiocca e tremolante di qualche lumino che la devozione diurna lì aveva acceso, lo spirito implorante e deforme di qualche buon’anima andatasene ad altra vita. Le visioni divenivano più frequenti ed inquietanti nelle notti ventose e di luna, Pur avvezzo a quegli incontri il “Rigolin” ne aveva timore, ne percepiva infausti presagi. Il giorno appresso ne dava testimonianza a quelle medesime pie donne che lì si recavano per una preghiera, per deporre fiori, per accendere lumini. Ma non era solo il “Rigolin” che faceva siffatti incontri e gli spiriti non erano solo in quel luogo. Se non li incontravi per via capitava che fossero loro medesimi a farti visita nottetempo a toccarti i piedi od a balbettare parole enigmatiche che ti angustiavano e vanamente cercavi di interpretare. Un po’ di sollievo e di luce venivano solo dal confidarti con congiunti comprensivi; per me: la mamma.
Pure le streghe avevano un loro luogo preferito: era il filare di robuste nogare che, partendo dalla strada del cimitero, si dipartiva perpendicolarmente a questa inoltrandosi nella campagna di Cagnoni fino allo scolo. Il luogo era più che credibile, specie di notte, per essere isolato e prossimo al cimitero. Esistevano nelle credenze popolari, nelle fole, nell’immaginario di molti, nell’esistenza del già citato “vecion” che notoriamente girava di notte e lì le incontrava. Costui viveva da solo in una grande e decrepita casa in cui, si diceva, tenesse cumuli di cianfrusaglie di ogni genere nonché misteriosi esoterici oggetti per suoi personalissimi riti. Bastava vedere il disordine che era nel suo cortile: masserizie, legname, vecchi attrezzi, cumuli di melega, canne. Voci maligne riportavano che frequentasse, a titolo oneroso, maghi e maghe. Era assiduo frequentatore della chiesa, era un confratello del Santissimo Sacramento, di cui portava con orgoglio la bianca veste tenuta da cordiglio con fiocchi, la mantella rossa con vistoso medaglione. Era lui a portare la pesante croce nelle processioni: lo ricordo in quella serale del venerdì santo. Nel ruolo del “vecion” era un attore: gesticolava, compiva scatti improvvisi, mutava di voce. Noi bambini temevamo il “vecion” sempre ed a prescindere dalla veste che portava.
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