Gognano (Villamarzana (RO)
Altare di San Bartolomeo
Alla domenica mamma Rita andava alla messa prima che era alle 7, sia d’inverno che d’estate. Si vestiva a festa con abbigliamento sobrio, morigerato, con tocchi di eleganza: camicetta blu scuro con colletto bianco ricamato, una spilla sulla giacca grigia, una collana di perle nere striate di rosa, un cappellino di velluto bruno. Al braccio la capiente borsetta di pelle nera dalla chiusura metallica a scatto, lunga quanto la borsa. Sul viso un lieve e frettoloso tocco di cipria, di cui ricordo la scatoletta ovale ed arabescata tenuta sul ripiano dell’armadio accanto ad una boccetta di lavanda. Ero piccolo quando Rita – giocondamente sorridente come è nella foto ricordo che tengo sul comodino – incominciò a condurmi per mano alla chiesa, forse perché ero, come lei, mattiniero e non voleva lasciarmi solo per casa quando gli altri ancora dormivano. Rita si metteva sul penultimo banco a sinistra della navata, dal lato verso il passaggio centrale. Io mi sedevo alla sua sinistra sullo stretto asse dell’inginocchiatoio sia perché dal sedile con i piedini non arrivavo a terra e sia perché nascosto lì in basso potevo concedermi qualche distrazione, di cui invero avevo diritto. A quella messa partecipavano persone mature e anziane e qualche bambino/a come me. Adulti, ragazzi, giovani, signore e signorine andavano alla messa seconda, quella delle 11.
Il tempo della messa era di una costrizione solenne e prolungata, specie per un bambino vivace. Bisognava pur difendersi per non soccombere alla noia che sarebbe divenuta una manifesta riprovevole inquietudine, a rischio di richiamo delle due severe zitelle che stavano un banco avanti. Per vivere il tempo della messa serviva attingere a risorse personali, nella fattispecie: la fantasia, le tasche. Con la mente mi estraniavo in fantasticherie che vagavano liberamente o per ispirazione di qualche sacra immagine o per la curiosità suscitata da parole appena udite: il drago, il fuoco, il diluvio, il serpente, l’inferno, la lebbra, il cieco, il martirio, la morte. Tornavano pure alla mente spaventevoli racconti detti e gesticolati nelle sere d’inverno dal vecchio zitello Beppe Pezzolo. Nelle tasche dei pantaloni, corti pure in inverno e portati con ruvide calze di lana tenute sulla coscia da elastici alti, tenevo sempre qualche trastullo: biglie di terracotta e di vetro, elastici tagliati da camere d’aria di bicicletta, rocchetto di legno, pezzi di spago, trottolina. Seduto all’indietro sull’inginocchiatoio, tra le gonne della mamma e della di lei cugina Pierina, disponevo quelle mie infantili risorse sui rosei marmorei riquadri del pavimento. L’importante era farlo in silenzio ed avere il controllo delle cose sì che non avvenisse, ad esempio, che una biglia scivolasse lontana o che un brusco movimento distraesse le pie donne. Talvolta la mamma mi lasciava frugare all’interno della sua borsetta ove teneva: borsellino della stessa foggia della borsetta, fazzolettini ricamati e profumati, un tondo specchietto ripiegato dalle superficie madreperlate, il rosario dai grossi lignei grani, il breviario dalla nera copertina segnata dall’uso e dalle pagine bordate di rosso, caramelline al rosolio. Aveva caro quel breviario di piccolo formato e dai grossi caratteri di stampa. Era d’uso comune, conteneva l’essenziale per nutrire la fede di persone umili e semplici: orazioni, salmi, suppliche, guida all’ascolto della Santa Messa, meditazioni, canti. Non osavo prendere quel libercolo per gioco, percepivo che era prezioso per la cura con cui lo conservava e la delicatezza con cui ne faceva uso. La corona invece la prendevo per il crocefisso e la disponevo a piacimento sul pavimento tra le altre mie cose.
Vi era un tempo della messa cui anche a me era imposto l’obbligo della partecipazione e della genuflessione: era quando il cotante Gioanin, figlio di Beppi il campanaro, agitava con insistita gagliardia lo squillante campanello annunciante il Sanctus. Stavo in ginocchio sul freddo pavimento, rivolto in avanti, a capo chino, a mani giunte, in trepida attesa di altro scampanellio, quello liberatorio alla fine della consacrazione. Ed era sollievo per le mie ginocchia muovere da quell’incomoda posizione. Per me il protagonista di quel tempo della messa era proprio Gioanin: agli squilli del suo campanello tutti s’inginocchiavano, chinavano il capo, stavano in silenzio. Provavo per lui sentimenti di ammirazione e di invidia. In cuor mio desideravo poter accedere a quel campanello. Tempo pochi anni e quel desiderio si avverrò per volere di Don Cornelio che non mancava di complimentarsi con la mamma per la mia mattutina presenza in quel luogo. Con la consacrazione si era, allora come ora, ben oltre la metà del tempo della messa ed ora pareva che tutto volgesse più in fretta. Già l’osservazione di chi si accostava alla balaustra per la Santa Comunione era motivo di curiosità e di sorrisetti per qualche individuale stranezza. Di lì a poco la conclusione con la benedizione di congedo ed il canto finale: “T’adoriam Ostia divina – T’adoriam Ostia d’amore…”
La messa era finita. Ero libero di correre sul sagrato. Mi aspettava la fila di bianchi marmorei paracarri dalla forma ottagonale che separavano l’erboso sagrato dalla strada. Correvo verso l’ultimo, il più basso, per cimentarmi nello scavalcamento con salto “a cavallina”. Ma purtroppo ancora non ce la facevo, bene che andasse restavo seduto in cima. Invidiavo i più grandicelli che compivano quell’esercizio con baldanza e con protervia. Ma giorno verrà! E quel giorno arrivò in fretta. Fui fiero di me come non mai prima per essere andato oltre l’ostacolo. Ancora altri salti ed ancora un po’ di tempo e l’intera fila di paracarri sarebbe stata domata: “a cavalllina”. Di quel successo ero orgoglioso come, anni più avanti, la promozione in ostico esame. Ora anch’io ero ammirato e preso a modello.
Di quelle messe non capivo nulla se non qualche parola detta durante la predica da Don Cornelio. E questo non solo perché il rito era in latino. Eppure di quelle mie prime esperienze ecclesiali qualcosa di prezioso per la vita mi si è impresso dentro. Innanzitutto la chiesa intesa come luogo d’incontri e di riti e come edificio singolare per: il bel altare, il crocefisso, le vetrate colorate, il soffitto dipinto a rappresentare il martirio di San Bartolomeo, il pulpito, i santi in nicchie e cappelle, l’altare laterale ove è l’affresco della Madonna di Loreto con bambinello. Qui ho visto pregare la mamma in intenso raccoglimento ed invocare l’intercessione della divina Madre in qualche infausta circostanza. In secondo luogo le donne. Alcune fra loro le conoscevo per vicinanza, per occasionale frequentazione, per aver condiviso, nel comune rifugio in fondo al fosso, lunghe ore di paura durante i bombardamenti notturni. Donne che pur vivendo nella miseria e nelle tribolazioni non cessavano di confidare nella divina Provvidenza. Donne testimoni di dedizione, di perseveranza, di pazienza, di tolleranza, di solidarietà, di speranza. Donne non tristi che sapevano gioire, stupirsi, ridere e far ridere. Donne che mi rammentano il “farsi prossimo” del Card Martini perché presenze di prossimità umana e di umile sperimentata sapienza. Grazie anche alla mal sopportata messa prima porto dentro i valori essenziali testimoniati dalle pie donne lì conosciute.
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