Le sagre di paese, si sa, ricorrono nei giorni in cui è anche la festa del santo patrono cui è dedicata la chiesa parrocchiale. Le sagre di paese sono occasioni di convivialità e di divertimento. Gognano aveva, ed ha, il suo patrono in san Bartolomeo la cui festività è il 24 agosto. Ma qui non c’era la sagra : il borgo era piccolo, la festa era in chiesa e nelle case ove si soleva invitare i parenti per il pranzo con cappelletti in brodo, bondola con polenta, caraffa di raboso.
La sagra grande di Fratta ricorre il 29 giugno per la festa dei Santi Pietro e Paolo; quella di Villamarzana ricorre il 28 agosto per Sant’Agostino. Muovendo da incerti ricordi ho motivo di ritenere che la prima cui mi portò Gaetano sia stata quella di Fratta. Andavamo in bicicletta: io, seduto sul bastone cui era legato un cuscino per non patire male al sedere, Gaetano a pedalare. Si andava per la polverosa e dritta via Matteotti e, oltre alla chiesa, per via Guanella, che finiva nella piazza grande, piazza Giacomo Matteotti. Qui, nell’angolo confinante con la mura della casa della Provvidenza, vi era sulla destra un portone per il passaggio ad una corte. In un lato di questa vi era lo stallo ove depositare la bicicletta e, sul fondo, l’ingresso ad una sala per il ballo ma pure, nel dopoguerra, per il cinema. Lo stallo ed il cinema erano di Brancaleon. Quel luogo suscitava curiosità ed infantili fantasticherie per essere appese, lungo il passaggio e di lato al portone, locandine di film. Non ero capace di leggere le scritte (a richiesta provvedeva il papà) ma i disegni ed i personaggi raffigurati incuriosivano e muovevano la fantasia. Erano finestre sul mondo, evocavano eventi tragici rappresentavano sentimenti. Il cinema che ho più avanti frequentato nei pomeriggi della domenica, mi ha certamente arricchito in conoscenza e donato evasioni e sogni ad occhi aperti. Quel cinema mi è rimasto dentro.
Fuori da quel passaggio si era in angolo della piazza. Qui: le luci, i suoni, il frastuono, la calca, la spensieratezza della fiera. Al centro del piazzale tre giostre: la calcinculo, l’autopista, quella dei cavallini. Alle fiere andavano soprattutto uomini in età matura, giovanotti, giovincelli, ragazzini. Le donne davvero poche: in quei tempi non era per loro, specie se giovani, decoroso frequentare le fiere. I bambini c’erano ma mediamente più grandicelli di quelli che si possono incontrare oggi in queste occasioni.
Quanto vado a raccontare è quanto è rimasto in me dalla partecipazione con mio padre alle fiere di Fratta. I ricordi hanno qualche vuoto ma sono del tutto verosimili.
Sulla destra della piazza, lungo le case, una sequela di piccole, ordinate e colorate bancarelle: frutta secca, dolciumi, giocattoli, bambole e bambolotti con la testa di gesso ed il corpo di stoffa imbottita. Gaetano iniziava con un cartoccio di brustoline (semi di zucca) tostate e salate a dovere. Io desideravo arrivare ai giocattoli: lo tiravo per la giacca perché sapevo essere facile a distrarsi ed a chiacchierare a lungo, quasi dimentico di me. I giocattoli di allora erano semplici ed artigianali, fatti con: legno, lata, cartapesta, cartone, terracotta, gomma. La plastica non esisteva. Erano di legno e cartapesta i miei prediletti ed indimenticati cavallini. Erano di legno: i pisoni (le trottole, con cui si faceva a gara), con in punta la testa di un chiodo; le crepitanti racole (fatte ruotare energicamente nella processione del venerdì santo tanto da formare un concerto itinerante). Erano di lata sagomata e dipinta le macchinine e le moto. Le più costose erano dotate di susta ossia del meccanismo a molla che dopo la carica consentiva loro di correre qualche metro, se il pavimento era liscio. Erano di gomma spessa ed elastica le bianche palle. Erano di terracotta: i salvadanai, le ocarine, gli zufoli. Appese nell’alto della bancherella stavano girandole di celluloide di varia dimensione, innocui fucili, carrettini, fionde. In basso sacchetti di palline di terracotta e di biglie di vetro: quelle più grosse verdognole, quelle più piccole striate di vari colori. Mentre Gaetano gustava le brustoline o salutava burlescamente qualcuno, io muovevo silenzioso attorno a quella bancherella attratto ed incantato. Mi bastava guardare; talvolta pure toccavo ed il buon uomo del venditore mi lasciava fare e mi volgeva un sorriso. Attorno a me altri bimbi con cui ci si scambiava timidi sguardi e attenzioni, ma non parole. Dopo aver girato e rigirato attorno a quei balocchi, avuta la promessa che più tardi mi avrebbe comprato una girandola, si andava avanti. In fondo alla fila soleva sostare il biroccio triciclo del venditore di granite.
Nel cassone, istoriato con colorati ghirigori ed un ridente faccione di clown, teneva, avvolti in spessi sacchi di iuta, lunghi prismi di ghiaccio. Sul pianale giacevano, pur essi avvolti, pezzi frantumati pronti per essere tritati da macina a manovella, simile alla macchina con cui la Rita preparava la conserva ma di questa più grande e pesante. Infilate in supporto di legno stavano bottiglie colorate dei sciroppi: menta, tamarindo mandorla, limone, arancio. Attorno qualche mosca. Sul manubrio una trombetta a pompa che veniva azionata per richiamo. Gaetano ordinò per me una granita al tamarindo e subito la manovella si mise in moto e la macina a sputare nel bicchiere ghiaccio trito . Nel frattempo mi ero seduto sulla panca ed il buon uomo, in breve, mi servì un bicchiere stracolmo di granita colorata di marrone ed un cucchiaino. Nell’allontanarsi notai che quell’uomo gentile e premuroso zoppicava non poco. Mentre lentamente gustavo la fredda leccornia finivo per essere attratto dalla verde grossa corona, con palline dorate e nastro tricolore posata sotto un busto nella facciata di quel palazzetto d’angolo. Il fatto è che in famiglia e tra i vicini avevo sentito parlare e discutere, anche animatamente, dell’uomo rappresentato in quel busto. Ora Gaetano mi spiegava che quella corona era deposta lì da poche settimane per l’anniversario (10 giugno) dell’assassinio dell’uomo del busto: Giacomo Matteotti. Per lui, sin da piccolo ho provato ammirazione e pietà, per i suoi vili assassini risentimento ed avversione. Ancora seduto sulla panca, giunto quasi al fondo del bicchiere, Gaetano si allontanò per scendere nel bar lì sotto e prendersi una gazzosa; si sa: le brustoline fanno venir sete e, a fine giugno, la calura è già greve.
Lungo il lato della piazza che affianca lo Scortico, sistemate tra le giovani e curate robinie del bordo riva, semplici e giocose attrazioni: il tiro a segno, il tiro al castello dei bussolotti di lata con palle di pezza riempite di semola, il banco dei pesciolini rossi, l’asse per la prova d’abilità nel piantare chiodi con il martello, la struttura metallica del binario ove lanciare a spinta di braccio un pesante carrello per la prova di forza. Invitavano a misurarsi nei giochi appariscenti e sorridenti signorine con la promessa, condizionata, di premi che erano poi oggetti di poco conto: la boccettina di liquore, la bambolina, lo specchietto rotondo, la scimmietta di pezza, il pettinino. In questo tratto di luna park noi si sostava divertiti ad osservare i comportamenti dei gareggianti, spavaldi ed esaltati giovanotti o ingenui creduloni, e le burlesche scenette che lì avvenivano, complice una contagiosa euforia da festa, cui non poco contribuiva il personaggio di cui vado a dire.
Piazzato tra le suddette attrazioni, in alto su una pedana, vestito di scuro con tuba e vistoso papillon, stava un provetto imbonitore, conoscitore delle altrui debolezze, dotato di collaudata psicologia di strada. Costui, con alle spalle colorati pannelli illustrativi contenenti ingialliti spezzoni di giornale e con davanti un alto banco di legno con sopra: boccette, vasetti, scatoline, cristalli di minerali, intratteneva i passanti illustrando le proprietà taumaturgiche dei suoi rimedi. Nel gesticolare si avvaleva di bacchetta di bambù che con disinvoltura agitava sia per batterla sul legno onde richiamare l’attenzione, sia per indicare nei pannelli animali e piante esotiche da cui i rimedi sarebbero stati ottenuti, sia per puntarla maliziosamente a qualcuno dei presenti per coinvolgerlo. Le persone sostavano volentieri: divertiti dall’esibizione, attratti dalle promesse in quanto generalmente affetti dai malanni lì evocati: calli, artriti, pruriti, tosse, punture d’insetti ed altro ancora. Negli uditori saliva il convincimento nei benefici dichiarati, si confabulava l’un l’altro dei propri patimenti, ci si incoraggiava all’acquisto. E così al via alla vendita, furbescamente dilazionata più volte, molti si precipitavano al banco reclamando la propria pozione, alcuni ne confermavano fragorosamente i benefici avendoli già sperimentati nel passato. Attorno al banco si creava un po’ di ressa: mani protese, grida, spintarelle anche intenzionalmente cercate, qualche irrepetibile imprecazione, raramente litigiosità. Gaetano era lì avanti per approvvigionarsi di vasetto di pomata per i calli, che gli affliggevano i piedi in inverno.
Questi imbonitori di strada erano presenti in quasi tutte le fiere importanti. Le loro proposte estese anche ad altri generi di merci: utensili, lamette, penne, pentole, stoviglie, tagliavetri, biancheria. Erano dei ciarlatani ma pure degli attori abili e convincenti che la gente piacevolmente ascoltava. Erano capaci di suscitare ilarità e coinvolgimento. Si avvalevano di complici occultati tra gli uditori che fungevano da spalla e che, per primi, si precipitavano al banco per l’acquisto elogiando ad alta voce le virtù del prodotto che asserivano avere già sperimentato. Tra il pubblico, purtroppo, si celavano anche miserevoli malandrini pronti a trarre profitto dall’ingenuità e dalla distrazione di taluno. E fu il caso di un vicino di casa ( è bene non fare nomi e sia pace all’anima sua) che, al ritorno, mostrò orgoglioso alla moglie, traendolo dalla tasca della giacca, la boccettina di unguento anti prurito di cui la buona donna tremendamente soffriva, salvo subito realizzare che nella tasca posteriore dei pantaloni non c’era più il portafoglio. Alle fiere avvenivano anche tali misfatti. Una volta capitò pure a Gaetano.
Delle argomentazioni dell’imbonitore non capivo nulla e comunque quell’uomo nero vestito la tirava troppo per le lunghe e non mi piaceva . Vicino al papà, stretto tra le persone, mi annoiavo. La mia attenzione si destava solo quando la bacchetta puntava al pannello degli animali: vipere, serpente avvolto ad un tronco, grosso pipistrello, scimmiette tra le fronde, variopinto pappagallo .
Ci incamminammo verso la giostra dei cavallini, sul lato della piazza, verso Cà Pepoli. Rispetto alle corrispondenti attuali questa era più grande, più bella, tutta in legno e cartapesta, poco metallo. La piattaforma girevole era sopraelevata ed al centro aveva pannelli che alternavano specchi deformanti e pitture floreali. La copertura decorata con fregi ed intarsi. I cavallini, sia per il traino che per il galoppo, erano ben grandi, tant’è che accanto ad ognuno vi era una pedana per la salita e di lato una lunga asta cui appendersi in caso di perdita d’equilibrio durante la furiosa eccitazione nel governare, tirando ed abbassando le due manopole poste sul collo, il dondolio dell’animale. Le carrozze, eleganti e principesche, erano poste verso l’esterno ed abbellite con volute intarsiate e dipinte. Avevano sportelli girevoli, sedile imbottito, postazione per il cocchiere, una pariglia di cavalli morelli per il traino. Ancorché ci si potesse accomodare ovunque, sempre avveniva che le bambine entrassero nelle carrozze ed i bimbi salissero in groppa ai cavalli. Questi non erano tutti uguali: morelli per le carrozze, sauri ed albini per il galoppo. A me piaceva guardare la loro testa: occhi enormi, narici scure e larghe, morso minaccioso, folta criniera. Le code poi erano tutte innaturalmente ricurve ad “esse”. Dall’alto pendevano alcune campanelle messe lì per invitarci a fare scampanellii. Gaetano mi faceva fare più di un giro ed io ero emozionato, estasiato, divertito. Nell’andare mi piegavo in avanti, guardavo dritto, stringevo le ginocchia alla stregua di quanto avevo visto fare a mio fratello Toni in groppa al nostro cavallo. Al termine di ogni giro, come gli altri piccoli cavalieri, mi precipitavo a cambiare cavallo. Appagato, sudaticcio e stanco giungeva l’ora di scendere, di volgere ancora uno sguardo di gratitudine a quelle nobili bestie, di lasciare definitivamente la giostra. Le altre giostre non mi interessavano, né mai le ho desiderate.
Sulla destra della via che conduceva a Cà Pepoli vi era, ai tempi di cui parlo, un prato. Lì, nei giorni di fiera si disponevano a semicerchio: carrozzoni, carri, transenne, tavolati dipinti con disegni di acrobati forzuti, di ballerine in tutù, di animali feroci. Al centro l’enorme e ampio tendone del circo. L’insieme incuriosiva ed attraeva. Ci avvicinammo al capannello di persone lì raccolte. Oltre una staccionata stava ritto ed immobile un vecchio elefante che un minuto sorridente pagliaccio stuzzicava invano: malgrado il suo impegno l’elefante non voleva saperne di mettere la proboscide entro un mastello d’acqua. All’uomo del circo, onde non deludere i presenti, non restò che fare quello che meglio gli riusciva, ossia il pagliaccio. La gente si mise a ridere divertita, ad incoraggiare, ad applaudire. La bestia dalla testa enorme non lo degnò né di uno sguardo né di un cenno di condivisione con sventolata delle ampie orecchie. Ero piccolo per andare al circo, per molti anni lo vidi solo dall’esterno, quando assistetti alle spettacolari attrazioni ne subii la suggestione ed il fascino.
Nel ritorno alla piazza Gaetano incontrò una persona conosciuta e pure a me familiare per essere venuta, più volte, nella corte. Era “Bramin” (diminutivo di Abramo) il sensale. Uomo magro e piccolo, scuro di carnagione, sempre in giro con una bicicletta nera dotata di cestello anteriore e porta pacchi dietro, assiduo frequentatore di osterie. Per mestiere costui si impicciava di tutto e di tutti allo scopo primario di negoziare affari, imbastire trattative, combinare baratti, raccontare malizie. Viveva delle scarse provvigioni e delle generosità della gente che incontrava nel suo peregrinare per corti. I due si misero a parlare e continuarono a farlo per un tempo che a me parve lunghissimo. A loro si unì un altro passante, pur esso di buona lingua. La tirarono per le lunghe ben oltre la mia riconosciuta pazienza. Tirai più volte il lembo della giacca: mi spazientii, mi sedetti sul cordolo che delimitava il piazzale. Questo era il risvolto penoso del godere con Gaetano delle fiere.
Ci avviammo verso la bancarella di dolciumi che era di lato alla pesa pubblica della piazza. Qui Gaetano, con il pensiero alla Rita ed a chi era a casa, comprò alcune barrette di croccante, una forma di mandorlato, un sacchetto di mandorle tostate, una stecca di cioccolato ed infine, per me, un bombolone alla crema con sopra tanto zucchero a velo. Muovemmo piano piano per la calca e per il lento mio godere di quella gustosa delizia. Mi imbrattai di bianco il naso e la bocca; gocce di crema fuoriuscirono e lesto le raccolsi con il dito. Tornati alla bancarella dei giocattoli il papa mi invitò a guardare alle girandole in alto ed indicargli quella che avrei voluto. Ne scelsi una di medie dimensioni con i colori delle alette di celluloide più vivaci: rosso, giallo, bianco, blu e verde. Ero contento, la guardavo, la tenevo con cura nel breve tratto verso lo stallo.
Era già sera inoltrata quando, oltrepassate le ultime case di Fratta, giungemmo ove la strada fiancheggia lo scolo. Ero stanco ma euforico. Mio papa pedalava gagliardo e, in alcuni tratti, zigzagava onde schivare le buche. La girandola, fissata con il bastoncino nell’attacco del fanale, roteava a dovere che quasi nel guardarla si sovrapponevano i colori delle alette. Più sotto il copertone mordeva polvere e ghiaino; la rotellina della dinamo premuta al copertone girava forte. Il fanale emetteva una flebile luce; il cinereo chiarore lunare illuminava il paesaggio. La strada pareva più bianca, i cespugli e gli alberi avevano contorni spettrali, al di là dello scolo la distesa delle stoppie si perdeva nel buio lontano..
E la bicicletta correva, la girandola roteava. Guardavo il mio giocattolo, guardavo le prime stelle e la luna in alto e quella riflessa nella scura acqua dello scolo.
Luigi Fasolin
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